di Rubino Rosaria
Per il riso, il napoletano ha avuto sempre un atteggiamento ambivalente.

Alla fine del 1300, il popolo napoletano da mangiafoglia non avendo altro cibo più economico da mettere sotto i denti, stava passando pian piano a mangiamaccheroni, appellativo più lusinghiero.

Quasi nello stesso periodo a Napoli, attraverso gli Aragonesi che venivano a prendere possesso del regno di Napoli arrivava nelle stive delle loro navi il riso, per strade diverse quindi ma sempre proveniente dall’oriente arrivavano pasta e riso, ma mentre la prima a Napoli metteva radici eleggendola dimora ufficiale non fu così per il riso che non si fermò più di tanto a Napoli, si spostò infatti al nord dove si installò stabilmente. Lì trovò l’acqua buona si dice, necessaria per la sua crescita, ma forse la verità è un’altra. Il riso, pur essendo un alimento nutriente che dava abbastanza sazietà e relativamente poco costoso, non aveva avuto molto successo a Napoli come la pasta, si capisce anche dai nomi che gli furono attribuiti e che in parte gli sono rimasti come ‘sciacquapanza’… e ‘sciacquabudella’… A motivare questi appellativi sicuramente era anche il fatto che veniva usato come medicamento: la scuola medica salernitana lo prescriveva in bianco in tutte le malattie gastriche o intestinale (basta pensare che a Napoli in quel periodo ci trascorrevano molto tempo le epidemie, tra cui il colera). Quindi il riso Purificatore veniva associato a condizioni di salute precarie, per questo i napoletani non furono dispiaciuti che il riso anche avendo avuto la città partenopea come prima destinazione scelse di stabilirsi in Lombardia, Piemonte e Veneto, ignorando però che il riso, come tutti gli emigranti che fanno fortuna lontano dai luoghi che sono partiti, un giorno sarebbe tornato e loro stessi l’avrebbero accolto con tutti gli onori e se era partito nudo e crudo torno in abiti più ricchi e più belli.

© Irenequarato

Se gli artefici del suo arrivo a Napoli furono gli aragonesi, quelli del suo ritorno furono i francesi. Nel ‘700 erano loro che regnavano a Napoli e i nobili che abitavano nel Centro Storico e al Monte di Dio nelle Adiacenze del Palazzo Reale, per apparire chic parlavano francese e mangiavano nella stessa lingua, i loro cuochi sia quelli autentici francesi sia quelli napoletani che si erano comunque impratichiti della cucina d’Oltralpe, in francese napoletanizzato venivano chiamati ‘ Monsù ‘ dal francese ‘Monsieur’. Questi poveri cuochi si dovevano scontrare ogni giorno con i loro padroni per la loro avversione nei confronti del riso che invece in Francia andava alla grande.

Pensarono quindi di nobilitare il riso e renderlo gradevole ai palati partenopei, aggiunsero il pomodoro, altro alimento che come la pasta era stato subito apprezzato appena arrivato a Napoli, però anche se rosso, questo non poteva bastare rimaneva sempre uno sciacquapanza, e decisero di arricchirlo con piselli, polpettine, ecc , piazzando tutte queste prelibatezze in cima, a guarnizione come specchietto per le allodole, sopra a tutto in francese sur-tout da qui a sartù.  I loro padroni nobili napoletani fecero da cavie a questo nuovo piatto e mostrarono di gradirlo molto così tanto come tanto avevano disdegnato il povero riso e poco per volta dalle tavole dei ricchi passò anche a quelle del popolo.