Nella cereria del nonno il lavoro era frenetico durante le settimane precedenti la festività della Pasqua.
A lui si rivolgevano tutte le parrocchie di Sondrio e del circondario.
Bisognava ordinare gli ulivi sul lago di Como, ordinare a Lecco la cera, la stearina e la paraffina per fare le candele e il cero pasquale.
La cereria a me, piccolina di 4/5 anni, sembrava l’antro di Mago Merlino: era un seminterrato abbastanza buio, con un suo odore caratteristico di cera e legno, spesso immerso in fumi che si alzavano dalle vasche di cera fusa; erano rialzate, sotto c’era una stufa alimentata a legna per tenere la cera sempre liquida.
In quei momenti di superlavoro tutta la famiglia era in cereria ad aiutare il nonno: lui preparava i telai con gli stoppini legati e messi a piombo, ne preparava di diverse lunghezze; gli zii, dei giovanottoni forti, li immergevano ripetutamente nelle vasche di cera fusa e ad ogni bagno le candele acquistavano millimetri di spessore. Una volta raggiunto il diametro voluto si appendevano ad asciugare.
Era uno spettacolo interessantissimo, ma ogni volta che cercavo di avvicinarmi alla vasca per curiosare dentro, mi agguantavano e con urlacci mi spedivano via:
– Te vöret borlà dent?! Via, van a giügà in cortil! Van fö di pée!
( Vuoi caderci dentro? Via, vai a giocare in cortile! Vai fuori dai piedi!)
Mi rifugiavo dalla nonna che, sul piano di un tavolone, rotolava le candele per renderle belle cilindriche e lisce.
Per rifinirle si portavano in cucina, lì c’era il lavoro artistico di decorazione. Il nonno era veramente un mago: ne faceva con il fondo rosso, blu, oro, poi le metteva su un piccolo cavalletto e ruotandole, le dipingeva con mano ferma a righe colorate, le decorava con le decalcomanie che preparavo ritagliate e immerse in una vaschetta d’acqua. Quando si arricciavano erano pronte per essere tolte dall’acqua e, qui veniva il difficile, sfilando il supporto in carta, posizionate sulla candela senza fare nessuna grinza.
Angioletti, Madonne, Gesù, Sacri Cuori, sceglievo quelle che mi piacevano di più e le porgevo al nonno
– Pian, pian attenta che i en delicà a, se rompen!
( Piano, piano attenta che sono delicati, si rompono!)
Ma la sua arte la esplicava nel cero pasquale, lo decorava meravigliosamente e lo incideva con spirali fatte con una pinzetta speciale; quando lo vedevo in chiesa di fianco all’altare ero tutta orgogliosa, pensavo:
– L’ha fatto mio nonno, ma l’ho aiutato anch’io.
Così come lo aiutavo a preparare il pranzo di Pasqua: magari lui ne avrebbe fatto a meno, ma come avrei potuto imparare allora a cucinare il capretto?
Questo è il modo più semplice di cottura che lui usava, forse anche il migliore perchè nella sua semplicità si mantengono gli aromi e il sapore delicato delle carni.
Lo cuoceva nel forno della stufa economica a legna ed il sapore era favoloso, diverso da quello che posso cercare di rifare io.
CAPRETTO DI PASQUA AL FORNO
Come prima cosa serve un bel capretto nostrano, come quello che mi hanno portato dalla montagna, da Olmo un paesino della Valle Spluga a 1000 m. di quota.
Per 2 kg di capretto servono:
100 g di burro
1 dl di olio d’oliva extravergine
1 kg di patate
un pizzico di segrisöla (timo selvatico)
un paio di rametti di rosmarino
1 dl di vino bianco
sale e pepe
Si rigirano in una teglia spessa di alluminio i pezzetti di capretto nell’olio e nel pepe, si aggiunge il burro e si fanno rosolare a fuoco forte, affinché non perdano i liquidi interni.
Si uniscono gli aromi ( timo e rosmarino) e sale, si bagna con il vino bianco e si mette nel forno a 180°C per circa 20 minuti mescolando con una spatola per non forare i pezzi con la forchetta.
Nel frattempo si preparano le patate pelate, tagliate a tocchetti e sbianchite in acqua bollente, si aggiungono nella teglia del capretto e si continua la cottura, regolando di sale e pepe, finché il tutto non è di un bel color dorato.