Foto fornita da www.taccuinistorici.it


PARIGI CAPITALE DEL MONDO
di Enzo Raspolli

Nel ‘500 succede una cosa che avrà uno strascico lungo come la coda di un aquilone: le grandi monarchie conquistano il mondo.
Hai inventato l’acqua calda, mi direte voi, oppure “abbiamo studiato tutti anatomia” mi diranno quelli che hanno visto “Totò diabolicus”: lo sappiamo bene che prima la Spagna poi la Francia e l’Inghilterra prendono le redini del mondo.
Le grandi monarchie si spartiscono l’Europa, le corti diventano sempre più ricche, sfarzose, barocche.
Ma voi l’avete studiato in relazione agli eserciti, all’economia; io invece parlo dalle cucine.
Ma, come disse, dopo, un filosofo tedesco e barbuto, le condizioni economiche determinano anche quelle “sovrastrutturali” e quindi anche quelle gastronomiche e, a rischio di essere bombardato, posso confermarlo.
La grande Francia, con le colonie disseminate in tutto il mondo, con una vastissima campagna, con la nascente borghesia commerciale ed imprenditoriale è, nel ‘500, una delle maggiori potenze europee.
A Parigi affluiscono merci da tutto il mondo conosciuto, i capitali accumulati nelle campagne, gli uomini e le donne di tutte le corti europee.
Eppure solo un secolo prima, nel ‘400, l’egemonia era delle città italiane, Firenze era il faro culturale d’Europa. Ma Firenze e le altre città italiane sono rimasti staterelli, con dazi fuori delle mura, scarsa circolazione di merci e mercati asfittici.
Nel 1517 un uomo di Chiesa, Angelo de Beatis, accompagnatore del Cardinale Louis d’Aragon ci descrive il mercato alimentare di Parigi “Polli e capponi, pernici e fagiani, tutto si trova in abbondanza e molto a buon mercato …… Di solito si mangia della buona carne di bue o di vitello ma migliore è la carne di montone. Da nessuna parte si fanno meglio qui le zuppe, i pasticci, i dolci di ogni genere.”
Dopo mezzo secolo è il veneziano Gerolamo Lippomanno che conferma come a Parigi la povera gente mangiasse maiale in abbondanza ma “Gli operai, i mercanti, vogliono mangiare, nei giorni di grasso, montone, capriolo e pernici, proprio come i ricchi, e nei giorni di magro, il salmone, il merluzzo e le aringhe salate che arrivano dai Paesi Bassi in grande abbondanza. I legumi abbondano, specie quelli freschi, e di rapida cottura: si mangiano pochissime lenticchie, e quasi mai fave.”
Quindi grande afflusso di beni alimentari nella prima città che è diventata la capitale del mondo.

Quindi abbiamo in contemporanea sia situazioni di penuria, di fame, soprattutto nel Sud Europa, e situazioni di abbondanza diffusa soprattutto nel centro nord dell’Europa.
Francesi e tedeschi mangiano molta carne, molta di più dei mediterranei che invece privilegiano ancora farinacei e verdure.
Era la dieta mediterranea, e loro l’avevano scambiata per fame.
Dei tedeschi tutta la letteratura dell’epoca sottolinea la propensione al bere, all’ubriachezza.
D’altronde già il nostro vecchio e caro Tacito, quello romano, aveva individuato questo vizietto dei teutonici “se si favorirà la loro tendenza all’ubriachezza fornendo quanto vino agognano, saranno sopraffatti da questo vizio altrettanto facilmente che con le armi” Capito il nostro Tacito!
Quindi il carnivorismo nordico viene da lontano, dal loro essere barbari (ricordate?) ed anche dal poter disporre di merci di imperi grandi come il mondo allora conosciuto.
Non a caso la religione “vincente” deve far piazza pulita con il sistema dei digiuni, delle penitenze, del mangiar di magro che era proprio della chiesa cattolica.
Saranno i Protestanti che troveranno nei loro predicatori le parole per abbattere il sistema dei digiuni. “Come il padre dice alla sua famiglia: - Siate solleciti alla mia volontà; quanto al resto mangiate, bevete, vestitevi come vi pare – cosi Dio non si cura di come noi mangiamo o ci vestiamo”. Parola di Martin Lutero.

Ora vi faccio una domanda seria:
Se avesse detto il contrario, sarebbe diventato Martin Lutero, fondatore di una Chiesa?
Lo vedremo poi, quando parleremo del rapporto dei Mussulmani con il maiale e degli Indù con la mucca, che la religione, quando e se vuole affermarsi, interpreta esigenze profonde e diffuse della società in cui nasce.
Quindi, verrebbe da dire, è l’uomo sociale, l’insieme degli uomini, che si costruisce un Dio a sua immagine, non il contrario.
Ma bada te dove siamo andati a finire!
Eppure questa affermazione della Riforma protestante mette addirittura in crisi l’industria ittica del Nord Europa, mica discorsi.

Dalla rottura religiosa deriva anche la nascita di un grasso di cottura diverso dall’olio di oliva destinato ai giorni di magro e del lardo per i giorni ordinario. Trattasi del sig. Burro, che naturalmente era già ben noto ed abbastanza usato, ma era un grasso “sospetto” e poi toglieva sostanze al cacio.
Ma già a Rouen nel 500 i ricchi cittadini finanziarono la costruzione di una “torre di burro” ricevendo la dispensa ecclesiale che permetteva loro di mangiarlo anche in quaresima e addirittura il “commercio” delle dispense per il burro era divenuto fonte di reddito per gli ecclesiastici.
Riprende in larga scala la produzione di birra (la scomunicata cervogia, ricordate?) e soprattutto i Paesi Bassi ne avranno un grande ritorno economico.
Da noi, in Italia, invece abbiamo da un lato i banchetti esagerati di cui abbiamo parlato e dall’altro penuria o addirittura carestia, intervallata da un mangiare ordinario, delle classi subalterne, povero di proteine animali.
La ristrettezza dei confini e dei mercati dei molti staterelli in questo periodo è una disgrazia, per la cucina, ma getta le basi di quella che sarà, ai giorni nostri, la vera ricchezza del gusto: la cucina del territorio.
Quindi, per semplificare, se a Parigi c’è il mondo in cucina, in Italia si mangia quel che c’è nei dintorni.
Ricordate che avevamo citato Cristoforo di Messimburgo, scalco famose ed autore di un trattato sui banchetti che si vantava di aver utilizzato, all’interno di un grande banchetto, il Ludovico Ariosto come fine dicitore.
Ebbene, è lo stesso Ariosto, però, a farci sapere che lui, di suo, preferirebbe i cibi semplici: “In casa mia sia meglio una rapa / ch’io cuoca e cotta s’un stecco me inforco / e monda sparga poi di aceto e sapa / che all’altrui mensa tordo, starna o porco / selvaggio”.
Si evidenzia, nel ‘500, una reazione anche letteraria allo spreco e alla ostentazione di ricchezza che viene dalle corti.
L’Accademia della Lesina ci ha lasciato un buon numero di scritti, non si sa se rielaborati nell’800, che assumono un punto di vista austero, direi parsimonioso.
Anche ora “lesinare” significa risparmiare, ed appunto questi letterati, un po’ per scherzo, un po’ sul serio, predicavano morigerazione in un’epoca in cui l’esagerazione era dominante.
Si prescrive di eliminare forchette perché abbiamo 5 dita, cucchiai da sostituire con un po’ di pane, usare pane duro almeno se ne mangia meno, e far grande uso delle zuppe di verdura che hanno sette virtù in quanto levano la fame e la sete, fanno dormire, fanno digerire, fanno buon dente, tanto talento e guance rosse.
Ricorda i pregi del cocomero (anguria) che in buona parte dell’Italia viene lodato perché si mangia, si beve e lava le gote.
Naturalmente l’accademia della Lesina è anche composta da burloni, i quali per esempio consigliano, contro il freddo, di usare fascine, ma non per bruciarle, bensì da portare su e giù per le scale, fino a quando la fatica non dia sudore ed accaldamento.
Eccoci qui, allora, alla fine del ‘500 con l’America lontana, i Protestanti che non protestano più e mangiano parecchio, noi mediterranei che si tira la cinghia e si scherza un po’.

Che mondo.





© 2000-2003 Coquinaria - Tutti i diritti riservati - Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata.