“Viva Palermo, viva Santa Rosalia”
di Valeria
Rosalia, figlia del duca Sinibaldo di Quisquina delle Rose, nipote per parte di madre di re Ruggero d’Altavilla, crebbe nel XII secolo alla corte dello zio, a Palermo. Era molto bella e suscitava interessi terreni, fra i tanti quello del principe Baldovino, all’epoca ospite di riguardo alla corte di Ruggero. La leggenda narra che, durante una battuta di caccia grossa, sul monte Pellegrino, la montagna sopra Palermo, un leone stava per uccidere re Ruggero; Baldovino, coraggiosamente, lo salvò uccidendo il leone. Re Ruggero chiese a Baldovino di indicare egli stesso un premio per la sua eroica azione, e quest’ultimo chiese la mano di Rosalia, che, in seguito alla proposta di matrimonio, fuggirà gettando nello sconforto la madre, lo zio e l’intera guarnigione di stanza a Palazzo Reale (o dei Normanni).
Rosalia chiese ed ottenne il
permesso di vivere da eremita in una grotta sul monte Quisquina, dove trascorse
dodici anni della sua vita. Successivamente, si trasferì in una grotta sul
monte Pellegrino, dove visse “a vita di contemplazione” fino alla morte.
Il suo culto si collega ad un evento particolare accaduto a Palermo in
occasione di un’epidemia di peste. Il 7 maggio del 1624, infatti, attraccò nel
porto della città un vascello proveniente da Tunisi, che in precedenza era
approdato a Trapani e lì era stato sequestrato perché l’equipaggio era stato
sospettato di essere stato contagiato dal morbo.
Palermo si trasformò in un lazzaretto sotto il cielo.
Nonostante le infinite preghiere della cittadinanza e le processioni, le
quattro co-patrone della città - Santa Cristina, Santa Ninfa, Sant’Oliva e
Sant’Agata - non erano riuscite a fermare la peste. Il miracolo, invece, fu
attribuito alle reliquie di Santa Rosalia, le quali, portate in processione,
impedirono l’ulteriore diffondersi dell’epidemia. Secondo le testimonianze
storiche, infatti, Vincenzo Bonelli, un saponaio di via dei Pannieri, che aveva
perduto per la pestilenza la moglie, salì sul monte Pellegrino per una passeggiata;
smarritosi in seguito a un temporale, gli apparve la visione di Rosalia che, in
dialetto palermitano, gli chiese di avvertire il vescovo che le ossa ritrovate
poco tempo prima nella caverna dove ella era vissuta da eremita, erano le sue:
se fossero state portate in solenne processione lungo le strade della città, la
peste sarebbe scomparsa. Poste in un sacco, tra fiori, candele accese e canti,
i resti mortali di Santa Rosalia, trasportati per le vie della città, fecero il
miracolo.
Palermo, in breve, fu libera, e, in attestato di riconoscenza a tanto
beneficio, si votò a lei, celebrando in suo onore feste annuali che
ricordassero i giorni della liberazione. La grotta del Pellegrino divenne
Santuario, ove la pietà d’ogni buon devoto si ridusse a venerare l’immagine
della Patrona”.
I tributi festivi votati al culto di Santa Rosalia, patrona di Palermo, ebbero inizio dopo il ritrovamento delle ossa, avvenuto il 15 luglio del 1624. In seguito al riconoscimento pubblico, da parte di esperti teologi e scienziati, dell’autenticità delle reliquie (22 febbraio 1625), il cardinale Giannettino Doria, sostenuto dalla volontà popolare, decide di onorare i resti della Santuzza con una solenne processione, che ogni anno, nei secoli, avrebbe ricordato la miracolosa fine dell’epidemia, vista come “flagello del Signore”, una punizione scagliata dal cielo contro i peccati degli uomini.
Così un fastoso corteo, composto dal Consiglio Reale, dal Senato, da cittadini illustri e da tutto il clero, aveva accompagnato dal Palazzo arcivescovile alla cattedrale il passaggio delle sacre reliquie della santa, riposte all’interno di uno scrigno di velluto cremisi.
Dal 1624, ogni anno dal 9 al 15 luglio, Palermo festeggia la patrona, la Santuzza, con un “festino” della durata di sette giorni; mentre il 4 settembre, data di nascita della santa, ha luogo il pellegrinaggio alla grotta del monte Pellegrino dove Rosalia visse a vita di contemplazione, e dove è stato edificato in suo onore un santuario; nello stesso giorno si visita la cappella della Cattedrale di Palermo, in cui è custodita la statua della santa che, secondo l’iconografia popolare, è rappresentata giovanissima, con una corona di rose bianche sul capo, in contemplazione davanti al Crocifisso che sarebbe lo specchio nel quale la santa vide riflessa l’immagine di Cristo. Il Festino rappresenta un momento storico per la città, e all’origine comprendeva tante manifestazioni che, tra sacro e profano, tra mito e leggenda, coinvolgevano tutti gli strati sociali, in una devota esaltazione della santa patrona di Palermo.
L’attrattiva principale era costituita dal Carro trionfale, una macchina scenica tra le più interessanti del periodo barocco, costruito con enormi travi e dalla forma simulante una nave. Il Carro (tirato da 40 muli riccamente bardati, sostituiti successivamente da buoi), decorato con pitture che in sequenza raccontavano gli episodi più significativi della vita della santa, non trasportava né le reliquie né il simulacro, ma inequivocabilmente rappresentava l’evento miracoloso, la storia degli uomini e l’intervento divino per intercessione della Santuzza, che in cima al carro, anche oggi, troneggia con la sua sacra immagine.
Quest’anno il Carro è stato il protagonista del corteo trionfale, preceduto da dieci tamburini, da un esercito di soldati in uniforme del seicento (alcuni veri militari di leva, altri figuranti), da sette portantine su cui erano sedute le Virtù cardinali e teologali, e da quattro portantine con i dignitari e il viceré. Un carro imponente, alto quasi dieci metri, realizzato in ferro, legno, vetroresina, dipinto con motivi marmorei e con alla sommità la statua di Rosalia, con il volto e le mani di porcellana.
La voce narrante di Arnoldo Foà
ha accompagnato tutto il corteo, suddiviso in tre quadri: il primo, messo in
scena sul piano del Palazzo Reale, ha raccontato la prima la Palermo
seicentesca, con le sue botteghe artigiane e con il fiorire di attività, vita e
colori, poi l’arrivo della peste e la morte, la città piegata dal male.
Il secondo quadro è stato messo
in scena quando il Carro è giunto davanti alla Cattedrale, dove i toni bui e
tristi della prima parte hanno lasciato il posto alle suggestioni luminose e
alla liberazione dalla peste, rappresentata attraverso l’apparizione della
statua della Santa sul Carro Trionfale: il tutto, scandito dalla voce di Foà,
dalle testimonianze in dialetto seicentesco e dall’accompagnamento musicale.
Il Carro si è poi fermato al centro dei Quattro Canti, “invasa” da palermitani e turisti, dove il sindaco è salito sul Carro, ai piedi della statua della Santa, deponendo un mazzo di fiori e gridando per ben due volte il tradizionale “viva Palermo, viva Santa Rosalia”. Il Corteo festante si è poi diretto verso il Foro Italico, dove a mezzanotte in punto sono esplosi i fuochi d’artificio: poco più di cinquanta minuti di coloratissime luci, accompagnate da “botti” e, per la prima volta, da un “barocco” sottofondo musicale, hanno illuminato a festa il “Foro Italico”: un immancabile rito che ha simboleggiato il trionfo della vita sulla morte (ovvero del Bene sul Male) e la rinascita della città, liberata dalla peste grazie alla Santa Patrona.
E’ stato il momento della festa,
alla quale hanno partecipato orgogliosi e affascinati centinaia di migliaia di
spettatori, fra cui diversi turisti stranieri, attratti anche dai venditori di
“calia e semenza”, “luppini”, “babbaluci”, “mandorlate”, “nocciolate” e angurie
ghiacciate, pane con meusa, pane e panelle, pane con le melanzane fritte
Ed ecco le ricette:
“Lo sfincione palermitano” di Rossella:
Lo sfincione palermitano a
differenza di tutte le altre pizze lavorate in Sicilia non si lavora con la
farina di grano dura ma da un impasto di farina 00 e lievito di birra.
Si scioglie il lievito di birra 50 gr. con dell'acqua tiepida con circa 150 gr.
di farina si forma un panetto che lasceremo lievitare al caldo ben coperto fino
a quando si sarà raddoppiato.
Quindi con la rimanente farina
850 gr.dove avremo aggiunto un bel cucchiaino di zucchero iniziamo a
incorporare il lievitino,un cucchiaino di sale e lavoriamo aggiungendo acqua e
circa 6 cucchiai d'olio e.v. fino ad avere una pasta morbida e ben lavorata.
Durante la lievitazione della pasta facciamo cuocere prima con un pò d'acqua e
poi con l'olio abbondante cipolla, e a parte della buona salsa a pezzetti, a
questo punto stendiamo la pasta su una bella teglia da forno piuttosto grande,
conficchiamo nella stessa pezzetti di acciughe, sistemiamo su di essa fette di
primosale, ricopriamo con le cipolle gia cotte, la salsa di pomodoro, ben
asciutta mi raccomando, e per finire spolverare su tutta la superficie pane
grattugiato, lasciare lievitare ancora per circa un'ora, e infornare in forno
gia caldo.
Molto importate è l'altezza della teglia,in quanto lo sfincione è una pizza
molto alta.
Lo “Sfincione” di Valeria
1 chilo di pasta di pane
Olio d'oliva
500 grammi di pomodori pelati
100 gr. di caciocavallo
2 acciughe
3 cipolle
sale e pepe q.b.
Spianate la pasta di pane lievitata (opportunamente
acquistata dal fornaio J), quindi
sistematela in una teglia ben oliata. Cospargetela con i pomodori pelati
tagliati a pezzi, la cipolla tagliata a fettine, l'acciuga fatta a pezzetti, il
caciocavallo grattugiato a scaglie, salate, pepate e oliate. Nel frattempo
avrete acceso il forno e quando avrà raggiunto la temperatura di 260 gradi
potrete introdurvi la teglia con lo sfincione. Fate cuocere per 35 minuti
circa. Sfornate, spruzzate con olio crudo e servite in tavola.
Pane, panelle e crocchè
Dice un detto siciliano: «La panella è cosa prelibata cavura, saprusa e profumata megghiu di la carni cu lu puré e megghiu di una tazza di café...».
Per la preparazione delle panelle:
500 gr. di farina di ceci, 1 Kg. di patate nuove, 2
mazzetti di prezzemolo t
Versare un litro d’acqua circa in una pentola e scaldatela a fuoco lento. Versare la farina di ceci, salate e mescolate fino ad ottenere un impasto denso che si staccherà dalle pareti della pentola. Versare l’impasto su un piano di marmo umido, aggiungere un po’ di prezzemolo e allargatelo con una spatola bagnata, in modo da ottenere uno spessore di circa 3 mm. Fare raffreddare e tagliate in quadrati. Questo è il metodo classico. Io verso l’impasto dentro una latta di olio di semi (quelle tonde) alla quale avrò tolto sopra e sotto, tanto l’impasto è talmente denso che non cola, poi lo rifinisco con una spatola e tolgo quello che è andato fuori. Una volta raffreddato lo spingo fuori e taglio le panelle con un filo (spesso uso quello interdentale). Friggete le panelle in abbondante olio di semi.
Per la preparazione delle crocche’:
Prendete delle patate, lavatele e bollitele in acqua
salata per 40 minuti. Scolatele, pelatele e passatele al setaccio aggiungendo
parmigiano grattugiato, 2 cucchiai di pangrattato e prezzemolo t
Pane con la milza (pane ca’ mausa)
Dato che non mi piace neanche un
po’ e non la so fare vi racconto solo un po’ di storia, gentilmente concessa da
Daniele Billitteri[5]:
“Dici pane con la milza e non puoi non pensare a Domenico Viviano, Baffone, e al suo chiosco a Porta Carbone. Era, a suo modo, un ecosistema pressoché perfetto: lo sbocco delle fogne attirava nell’insenatura cefali e mangiaracina incuranti dell’andirivieni dei zavorrieri, i pescatori di sabbia. Dal lato del Castello a Mare c’era (e c’è) il Mercato Ittico ai cui ingressi, come i Leoni di Micene, c’erano (e non ci sono più) il «Monrealese» e il panellaro. Il primo vendeva pane di casa «consato» con pomodoro, olio, tonno e scaglie di caciocavallo. Nessuno ha mai capito come facesse a tagliare le fettine di pomodoro così velocemente e così millimetricamente uguali senza affettarsi le dita. Il Monrealese non c’è più e sono moltissimi i palermitani che lo rimpiangono. Il panellaro apparteneva invece alla razza degli ambulanti fissi, apparente contraddizione. Lui la bottega se la portava dietro ma nessuno lo ha visto vendere una panella, una crocchè o una «quaglia» (la melanzana fritta intera ma a frange) lontano dal luogo dove, per anni e anni, ha trascorso le sue mattine.
Più avanti verso Porta Felice c’era Viviano. Non aveva il chiosco ma solo il bancone con le ruote. Imponente, eccentrico, nessuno ricorda di averlo mai visto ridere. Dal suo pulpito predicava la sacralità della Pausa.
Altro che fast food: il pane con la milza non ha mai sostituito un pasto normale. L’ora di punta cominciava poco dopo le nove e toccava il massimo poco prima delle undici. Ora di punta successiva: dalle 17 alle 18.30, a «levata di mano». Il trono di re Baffone era fatto della tradizionale padella inclinata: nella parte alta si accumulava lo scannarozzato, nella parte bassa friggeva la «saime», cioè lo strutto. E tutto attorno le mafalde da non confondere con quelle che tutti noi possiamo comprare al panificio. Era una produzione speciale di un tipo di pane unico: un taglio più piccolo rispetto al «quarto di chilo», lievitato un po’ meno per assorbire poco. Sette pani pesavano un chilo. È un tipo di produzione ancora in uso. L’unità di misura era il «mezzo pane», quello che era anche più comodo da maneggiare. E la milza? Quella stava sotto banco perché nel «cacciotto» se ne mette poca: massimo due fettine. Poi il polmone, e dunque, tranne specifica richiesta, lo scannarozzato (volgarmente detto trachea). Questa era la versione base. Gli optionals prevedevano: scaglie di formaggio e ricotta. E a guardare da lontano, sembrava che tutti si inchinassero al «re». Invece i clienti cercavano, con tipica genuflessione, di evitare che il grasso sgocciolasse su camicie e cravatte.
Molte sono le scuole di pensiero sull’interpretazione
dei termini «schietta» o «ma
Baffone aveva stabilito pure una forma di simbiosi. Accanto al suo bancone ce n’era un altro dove un uomo silenzioso distribuiva mezze birre, Fanta e Coca Cola. Non parlava mai, aveva gli stessi orari di Viviano, legato com’era al suo destino, come una remora sotto la pancia dello squalo.Baffone doveva far fronte alla clientela che cresceva. Fu così che posò la forchetta con le corna, una comune forchetta dalla quale vengono tolte le due aste centrali. Serviva per prendere le fettine di milza dalla «saime» disporle, con gesto elegante, sul mezzo pane. Era la prima cosa che si metteva. Poi si prendeva la paletta forata e si metteva il resto. Un altro gesto «classico» era la strizzata del mezzo pane per farne cadere il grasso superfluo. Poi cominciò ad essere usata solo la paletta per compiere l’intera operazione: segno dei tempi.
Da qualche anno si è trasferito di fronte, in un locale ampio dove può smaltire meglio la lunga coda di appassionati che ancora affollano la sua «ditta». Ancora oggi rappresenta uno dei quattro pilastri fondamentali della «cultura del pane con la milza». Gli altri tre sono: Basile alla Stazione, la focacceria di piazza San Francesco d’Assisi e quella di via Bara all’Olivella. Quanto resta oggi di tutto quanto precede? Qui il discorso si fa delicato. Molto si è perso perché la città è cambiata (anche in meglio, intendiamoci). Molto si è imbastardito per seguire le evoluzioni (ma pure le «globalizzazioni») del gusto. Qualcosa resiste ma sembra destinata a finire in una sorta di museo del neorealismo culinario. Una volta, molti anni fa, il comune tentò di imporre agli stigghiolari, con tanto di sostegno finanziario, baracche a norma igienica: alluminio, canna fumaria, acqua corrente. Che flop! Per alcuni anni ne sono sopravvissuti due: uno in Corso dei Mille di fronte all’ex mulino Pecoraino e l’altro alle falde della Scala Vecchia, in piazza Generale Cascino dove comincia la salita per il pellegrinaggio a Santa Rosalia. E anche quelli, col passare degli anni, hanno subito una... regressione estetica che li ha riportati allo splendore della passata improvvisazione. Parliamoci chiaro, il giorno in cui dietro uno schermo protettivo in plexiglass, un signore in grembiule immacolato e bustina bianca in testa tenterà di tagliare stigghiole a me destinate, ebbene giuro che non ne mangerò più, mai più.”
ecco qui uno dei coloratissimi banchi di “calia e semenza”:
e per finire, sempre per gentile concessione di Daniele Billitteri:
Ai tempi dei Vicerè la regola era quella delle «tre F».
Per conquistare e mantenere il consenso dei palermitani bisognava offrire loro
Storia e tradizioni riempiono pagine e pagine di libri antichi e dotti ma il
Festino è soprattutto fatto di gente, di migliaia e migliaia di palermitani che
la sera del 15 luglio si riversano al Foro Italico per concludere una giornata
dedicata, dall’alba al tramonto, alla festa religiosa. Ma dopo il tramonto
diventa festa laica, frizzi, lazzi e sbutro.
Il Foro Italico si apparecchia diversi giorni prima. A Porta Felice Ignazio
Ferrante tirava a lucido la sua postazione di «muluna» costruendo impossibili
montagne di angurie tutte col «culo» esposto. Già perché la qualità del
«muluni» si verifica con la «toccata del culo». Se la resistenza al dito è
morbida ma non troppo, l’anguria sarà matura e dolce. Ma Ignazio vendeva «a
prova»: tagliava una fetta e l’assaggiavi. Compravi solo se eri soddisfatto.
Allora pescava l’anguria da una grande vasca piena di acqua e ghiaccio e
cominciava a tagliare. Che arte: un coltello lungo che sembrava una scimitarra,
mai un «muluni» tagliato proprio a metà ma di traverso in modo da ottenere
fette lunghe, più facili da mangiare secondo il princicpio: «manci, vivi e ti
lavi a faccia», cioé mangi bevi e ti lavi la faccia. Mai frutto fu più
completo. Un rito antico. L’unica concessione alla modernità uno slogan
pubblicitario che campeggiava sulla tenda della postazione: «Se melloni rossi e
buoni vuoi mangiare, da Ignazio Ferrante li devi comprare».
Anche il «reparto» fichi d’india è antico «come la
camminata a piedi». I frutti stanno in bella mostra su un carrettino inclinato
pieno di foglie di vite. Ma quelli da consumare sono dentro un grande secchio
pieno di acqua fredda. Non si tratta solo di «agghiacciarli» ma anche di
privarli delle insidiose spine. Il venditore li pesca dalla tinozza e li taglia
nel modo tradizionale: toglie i «cozzi» poi incide il frutto nel senso della
lunghezza e, tirando i lembi incisi fa «sbocciare» la polpa e la offre al
consumatore. Il colore della polpa non ha rapporto con la qualità del frutto nè
con il suo grado di maturazione. Tuttavia esistono i «patiti» del fico d’india
viola, quelli del frutto arancione. Quelli verdi hanno meno successo perché
spesso sacambiati per frutti non ancora maturi. Quanti mangiarne? Leggenda
vuole che un abuso provochi fastidiosi intoppi intestinali tanto che un modo di
chiamare i fichidindia è «attuppateddri». Ma c’è chi giura che si tratta solo
di una leggenda e che si «attuppa», più che per i fichi d’india, per tutto
quello che ci siamo «ammuccati» prima.
Nella parte del Foro Italiaco tra il tempietto della musica e l’incrocio con la
via Lincoln si danno appuntamento i venditori di «calia e simenza». Che poi
sono lo «zoccolo duro» dell’offerta La «calia» (ceci tostati) è immutabile,
sempre uguale. Ma la semenza, seme povero di un frutto povero, la zucca rossa,
nelle mani dei palermitani diventa alimento flessibile nelle sue varianti senza
sale, salato e «poco sale», la prefe
Poi ci sono i luppini a bagno nell’acqua salata, le fave secche tostate e i «cruzziteddri», castagne sgusciate e lasciate seccare. Roba da denti forti ma nulla in confronto a chi si cimenta con la «cubarda», dolce di zucchero durissimo ma ancora «morbido» in confronto alla «pietra fendola» fatta di zucchero caramellato impastato con mandorle e pistacchi e lasciato indurire. E poi i «bummuluna», la «inciminata» «mandorlata» e la «nocciolata». Il tutto preparato «alla vista» su grandi lastre di marmo dove lo zucchero caramellato impastato con il sesamo o con le mandorle o con le noccioline americane (arachidi) viene riversato, appianato, lasciato raffreddare e poi tagliato e ridotto in «tavolette». Un altro classico è il «gelato di campagna» che sembra una fetta di gelato al «giardinetto» ma che è fatto di zucchero, mandorle e canditi.
I banconi dei «semenzari» sono altissimi e per prendere i
prodotti dagli scaffali inclinati più alti bisogna fare ricosrso ad un’asta con
un «coppo». E ancora più su ci sono i pannelli disegnati con le storie
eterogenee che vanno dai Paladini di Francia a Napoleone, da Orlando (ma no
Leoluca...) alle immagini della Santuzza in tipico stile da Trionfo. Il
canovaccio è sempre lo stesso, quello della Resistenza alla Tentazione.
Ma, tra il Sacro e il Profano, oltre allo «spizzulio», c’è anche la possibilità
di mangiare. Panini, prevalentemente. Il panellaro della Kalsa lavora a ritmo
continuo e il pane con la milza va a ruba in barba al caldo. Ma neanche il
rispetto per la Santuzza ci salva da «cartocci» e «topolini» imbrattati di
salse americane.
Ma il Festino è soprattutto il trionfo dei «babbaluci. In una notte, quella del Festino, se ne fanno fuori tonnellate. Si può dire che i «babbaluci» stanno alla Santuzza come il panettone sta al Natale. Un fruttivendolo della Kalsa li propone dalla fine di giugno ai primi di settembre. E dietro c’è un lavoro massacrante.
Tutto comincia con i «babbaluciari», i raccoglitori.
Perlustrano le campagne e i dorsi delle colline, dove, tra cespugli spesso
spinosi, le lumachine vengono raccolte una per una. Chilometri e chilometri ma
certo è che ne trovano quintali. Qualcuno crede che è più facile trovarli dopo
qualche ora di pioggia ma non è vero. Quello riguarda i «crastoni», cioé
lumache molto più grosse che con i «babbaluci» condivideranno magari la
«famiglia» biologica ma non quella della provenienza e del, diciamo così, modo
d’impiego.
Avuta la materia prima si fa in modo che le lumache non fuggano. Basta
circondare il bordo del sacco col sale che per loro è un ostacolo
insormontabile. I «babbaluci» vengono abbondantemente (si spera) lavati. Poi si
prepara l’aglio, chili di aglio fatto a spicchi ripuliti dalla pellicola.
Quindi si «minuzza» il prezzemolo e si mette mano alla «lanna» dell’olio. I
«babbaluci» vengono cotti in un soffritto costantemente «arriminato» da enormi
mestoli. Poi si dispone il tutto in pentoloni piatti con l’esterno di rame e
l’interno di alluminio e si decora con una abbondante spolverata di prezzemolo
e spicchi d’aglio crudi. La porzione-tipo è il piattino. Su quanti «piattini»
possa fare fuori un palermitano in una notte di Festino non esistono notizie
certe ma certe «performances» sfiorano la leggenda. Non è un problema di
capacità: in fondo le lumachine sono davvero piccoline e, tolto il guscio,
resta ancora meno. Il problema è quello della velocità. Avete mai provato? I
più «fini» usano uno stuzzicadenti per tirare fuori il corpo della lumaca dal
guscio. Bene: questi non batteranno mai i record di velocità. Ma c’è una
tecnica consolidata che consente di mangiare i «babbaluci» a mani nude, senza
altro supporto. Se provate a succhiare non succede niente per un problema di
pressione. Ma se se con un dente canino (preferibilmente il destro), che è
appuntito, schiacciate la cima della chiocciola e create un buchino ecco che si
forma un canale d’aria che dà alla succhiata l’effetto pneumatico sperato di
trascinare il «babbalucio» nella vostra bocca. Ecco come accade che lungo il
Foro Italico camminerete per tutta la sera su un tappeto di gusci schiacciati:
sic transit gloria mundi.
La folla è in continuo movimento da Padre Messina a Porta Felice. Intere famiglie vagano alla ricerca di un posto privilegiato per assistere al clou-finale della festa: il gioco di fuoco.
Una suggestiva abitudine, per chi lo può fare, è quella di assistere ai giochi pirotecnici, dal mare. Una volta uscivano le barche degli «zavorrieri», «pescatori» di sabbia che riempivano le stive aperte di nonni e bambini e buttavano ferro davanti ai frangiflutti del Foro Italico. L’abitudine adesso ha contagiato i diportisti che escono con ogni sorta di imbarcazione, dalle enormi barche a vela ai «ferri da stiro» a motore. E, solo in relazione al gioco di fuoco, una «succursale» del Foro Italico diventano le prime rampe della strada che conduce in vetta al Montepellegrino.
Il gioco di fuoco è, in realtà, una gara tra diverse ditte di «fuochini» che partecipano al Festino. Di solito sono in tre a contendersi il primato. Si comincia tardi con un primo «botto» che serve da segnale che la gara è cominciata. Ogni esibizione ha il suo «copione»: prima le figure classiche, poi i fuochi bassi (girandole e fontane di fuoco) poi i botti più grandi, quelli che disegnano in cielo rose e margherite, stelle e aquiloni, quelle che colorano la notte come pennelli sognanti capaci di donare vita a una tela nera. La differenza tra la velocità del suono e quella della luce crea un effetto che, almeno nei bambini, è veramente eccitante. Quando vedi allargarsi nel cielo una «fontana» enorme sai già che il botto che sentirai qualche attimo dopo ti farà «intronare». Allora socchiudi gli occhi e incassi la testa tra le spalle come a proteggerti. Ma questo è niente in confronto alla «masculiata». È la conclusione di ogni esibizione, quella nella quale i «fuochini» impegnano abilità e «onore» professionale. C’è un crescendo veloce di luce e suoni, come un enorme stormo di fenicotteri che comincia ad alzarsi in volo da un lago africano. Alla fine il cielo è illuminato a giorno e il runore degli scoppi diventa insopportabile quasi come il silenzio che ne segue la fine. Il palermitano è così: più si «stona» più è contento. Una «masculiata» debole, che «masculiata» è? Se si chiama così (chiaro il riferimento all’orgasmo) ci sarà pure un motivo.
E mentre in cielo rimangono le nuvolette residue dei botti, il popolo comincia adefluire come una colonia di formiche che torna nei formicai del Centro Storico o rientra nelle Borgate. Ma c’è chi si attarda, chi tirerà notte magari fino all’alba per dare l’arrembaggio spavaldo all’ultimo «muluni», all’ultimo fico d’india, all’ultimo piattino di «babbaluci». Un’altra notte è andata, un altro Festino: «campavu natr’annu». Er è curnutu cu un dici cu mmia: Viva Santa Rusulia! In una notte, quella del Festino, se ne fanno fuori tonnellate. Si può dire che i «babbaluci» stanno alla Santuzza come il panettone sta al Natale. Un fruttivendolo della Kalsa li propone dalla fine di giugno ai primi di settembre. E dietro c’è un lavoro massacrante.
Tutto comincia con i «babbaluciari», i raccoglitori. Perlustrano le campagne e i dorsi delle colline, dove, tra cespugli spesso spinosi, le lumachine vengono raccolte una per una. Chilometri e chilometri ma certo è che ne trovano quintali. Qualcuno crede che è più facile trovarli dopo qualche ora di pioggia ma non è vero. Quello riguarda i «crastoni», cioé lumache molto più grosse che con i «babbaluci» condivideranno magari la «famiglia» biologica ma non quella della provenienza e del, diciamo così, modo d’impiego.
Avuta la materia prima si fa in modo che le lumache non fuggano. Basta circondare il bordo del sacco col sale che per loro è un ostacolo insormontabile. I «babbaluci» vengono abbondantemente (si spera) lavati. Poi si prepara l’aglio, chili di aglio fatto a spicchi ripuliti dalla pellicola. Quindi si «minuzza» il prezzemolo e si mette mano alla «lanna» dell’olio. I «babbaluci» vengono cotti in un soffritto costantemente «arriminato» da enormi mestoli. Poi si dispone il tutto in pentoloni piatti con l’esterno di rame e l’interno di alluminio e si decora con una abbondante spolverata di prezzemolo e spicchi d’aglio crudi. La porzione-tipo è il piattino. Su quanti «piattini» possa fare fuori un palermitano in una notte di Festino non esistono notizie certe ma certe «performances» sfiorano la leggenda. Non è un problema di capacità: in fondo le lumachine sono davvero piccoline e, tolto il guscio, resta ancora meno. Il problema è quello della velocità. Avete mai provato? I più «fini» usano uno stuzzicadenti per tirare fuori il corpo della lumaca dal guscio. Bene: questi non batteranno mai i record di velocità. Ma c’è una tecnica consolidata che consente di mangiare i «babbaluci» a mani nude, senza altro supporto. Se provate a succhiare non succede niente per un problema di pressione. Ma se se con un dente canino (preferibilmente il destro), che è appuntito, schiacciate la cima della chiocciola e create un buchino ecco che si forma un canale d’aria che dà alla succhiata l’effetto pneumatico sperato di trascinare il «babbalucio» nella vostra bocca. Ecco come accade che lungo il Foro Italico camminerete per tutta la sera su un tappeto di gusci schiacciati: sic transit gloria mundi.
La folla è in continuo movimento da Padre Messina a Porta Felice. Intere famiglie vagano alla ricerca di un posto privilegiato per assistere al clou-finale della festa: il gioco di fuoco.
Una suggestiva abitudine, per chi lo può fare, è quella di assistere ai giochi pirotecnici, dal mare. Una volta uscivano le barche degli «zavorrieri», «pescatori» di sabbia che riempivano le stive aperte di nonni e bambini e buttavano ferro davanti ai frangiflutti del Foro Italico. L’abitudine adesso ha contagiato i diportisti che escono con ogni sorta di imbarcazione, dalle enormi barche a vela ai «ferri da stiro» a motore. E, solo in relazione al gioco di fuoco, una «succursale» del Foro Italico diventano le prime rampe della strada che conduce in vetta al Montepellegrino.
Il gioco di fuoco è, in realtà, una gara tra diverse ditte di «fuochini» che partecipano al Festino. Di solito sono in tre a contendersi il primato. Si comincia tardi con un primo «botto» che serve da segnale che la gara è cominciata. Ogni esibizione ha il suo «copione»: prima le figure classiche, poi i fuochi bassi (girandole e fontane di fuoco) poi i botti più grandi, quelli che disegnano in cielo rose e margherite, stelle e aquiloni, quelle che colorano la notte come pennelli sognanti capaci di donare vita a una tela nera. La differenza tra la velocità del suono e quella della luce crea un effetto che, almeno nei bambini, è veramente eccitante. Quando vedi allargarsi nel cielo una «fontana» enorme sai già che il botto che sentirai qualche attimo dopo ti farà «intronare». Allora socchiudi gli occhi e incassi la testa tra le spalle come a proteggerti. Ma questo è niente in confronto alla «masculiata». È la conclusione di ogni esibizione, quella nella quale i «fuochini» impegnano abilità e «onore» professionale. C’è un crescendo veloce di luce e suoni, come un enorme stormo di fenicotteri che comincia ad alzarsi in volo da un lago africano. Alla fine il cielo è illuminato a giorno e il runore degli scoppi diventa insopportabile quasi come il silenzio che ne segue la fine. Il palermitano è così: più si «stona» più è contento. Una «masculiata» debole, che «masculiata» è? Se si chiama così (chiaro il riferimento all’orgasmo) ci sarà pure un motivo.
E mentre in cielo rimangono le nuvolette residue dei botti, il popolo comincia adefluire come una colonia di formiche che torna nei formicai del Centro Storico o rientra nelle Borgate. Ma c’è chi si attarda, chi tirerà notte magari fino all’alba per dare l’arrembaggio spavaldo all’ultimo «muluni», all’ultimo fico d’india, all’ultimo piattino di «babbaluci». Un’altra notte è andata, un altro Festino: «campavu natr’annu». Er è curnutu cu un dici cu mmia: Viva Santa Rusulia!