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LA CUCINA NAPOLETANA DI CASA MIA di eleonora

frutta Napoli

A me piacerebbe raccontare qualcosa della cucina di casa mia.
La mia famiglia si è trasferita da Napoli a Milano nei primi anni ’60; soldi in casa non ne giravano moltissimi, così sono venuta su a cereali e legumi.

La pasta naturalmente è stata l’alimento principale: non solo vermicelli al pomodoro, ma pasta e cavolfiore, pasta e cocozza, pasta e ceci, pasta e patate, pasta e fagioli, pasta e piselli, d’inverno con i legumi in scatola, quand’era stagione sgranandoli freschi dai baccelli.
Qualche volta, la domenica, si facevano le frittate di maccheroni (spaghetti, in realtà) che per noi non erano portata da pic-nic, ma golosissimo piatto unico.


La frittura è stata un’altra grande risorsa: tante volte abbiamo cenato con panzarotti ripieni di uova e provola, con crocchè di patate, con palle di riso, “scagliuozzi” (fette di polenta fritte), “sciurilli” (fiori di zucca in pastella), cavolfiori, carciofi, melenzane indorati e fritti, mozzarella in carrozza, pizze fritte con la salsa, pizze fritte con la ricotta, pizzelle di baccalà, paste cresciute: preparazioni laboriose, cui partecipava tutta la famiglia.
Ancora capitava di fare cena con la pizza di scarola, o con la pizza rustica, imbottita di ricotta - in pratica torte di sfoglia ripiene - o con il gattò di patate (si scrive così, e guai a chi lo chiama “gateau”!) farcito di mozzarella e salame, con la sua crosta dorata, o con la brioche, ciambella salata di pasta lievitata.
Carne se ne vedeva poca; quando non erano le bistecche alla pizzaiola, o le braciole (involtini), allora era “ ‘o rraù”, il ragù di maiale, ed era domenica, perché la cottura richiedeva molte ore; con il sugo si condivano i paccheri di Gragnano.
Oppure si faceva la genovese, stufato di manzo ricco di cipolle, vai poi a sapere perché si chiama così.
Anche il pesce non era frequentissimo sulla nostra tavola: abbastanza spesso il baccalà con pomodoro, capperi e olive, le alici fritte o in tortiera; di tanto in tanto un tegame di profumatissimi “purpetielli affogati”.
Le verdure invernali, come la scarola, i broccoli e i cavolfiori affogati, o l’insalata di patate, si sostituivano d’estate con melanzane, zucchine e peperoni ripieni, questi ultimi di pangrattato, olive, capperi e basilico, e noi bambine li chiamavamo “con la segatura”; e poi peperuncielli e melenzane fritte, zucchine e carote “a scapece”, parmigiana di melenzane, teglie di patate cipolle e pomodoro, odorose di origano.
I pomodori trionfavano nell’insalata con cipolla, cetrioli e origano, oppure spezzati in padella con aglio e basilico a fare un semplicissimo quanto saporito sugo per la pasta.
Molto per il riso non lo siamo mai stati. Qualche volta si sostituiva alla pasta unendosi a fagioli, piselli o patate; quello che compariva più frequentemente sulla nostra tavola era il riso e verzi, che a me non è mai piaciuto.
Ma se la festa era grande, allora era il sartù, preparazione sontuosa di origine settecentesca, il cui nome tradisce una lontana origine francese, in cui il riso è uno scrigno che avvolge una ricchissima farcitura. La preparazione è lunga e laboriosa; papà è sempre stato il capocuoco, mentre io e le mie sorelle rubacchiavamo le polpettine destinate al ripieno.

Il Settecento è stato un secolo d’oro, per la cucina napoletana; la regina Maria Carolina di Borbone, che veniva dalla Francia, pensò bene di portarsi al seguito numerosi raffinati cuochi che, entrati al servizio delle famiglie aristocratiche con il nome di Monzù – storpiatura di Monsieur – rielaborarono la gustosa ma povera cucina napoletana.
A questo periodo sono da far risalire anche i “timpani”, i timballi di pasta racchiusi da un guscio di pastafrolla, che però a casa mia non hanno mai preso piede, perché i miei non amavano il connubio dolce-salato.
Minestre in casa se ne sono viste poche, a parte la zuppa di ceci; menzione particolare merita la minestra maritata, dove la verdura si sposa con la carne di pollo e di maiale; già il nome suggerisce che si tratti di portata destinata a una festa; ove questo non bastasse, la ricetta prevede un osso di prosciutto, non facile da reperire!
Lo stesso discorso vale per il “soffritto”, sarà successo un paio di volte di riuscire a trovare tutti gli ingredienti, a Milano, ed è stata festa grande.

Le stagioni dell’anno erano scandite da festività, e le festività solennizzate con piatti particolari, non come adesso, che si trova e si mangia tutto, in qualsiasi periodo.
A Carnevale, per esempio, era il momento del sanguinaccio, squisita crema a base di cioccolato e sangue di maiale; ormai un caro ricordo, grazie alle normative europee sull’igiene alimentare. Bisognava tenere tutti gli ingredienti pronti in casa, perché non si sapeva mai quando il sangue sarebbe arrivato, e andava cotto subito, prima che coagulasse.
A marzo non mancavano mai le zeppole di San Giuseppe, fritte e rotolate nello zucchero o nel miele; tutte le mie amiche d’infanzia le ricordano ancora.
Per Pasqua, la preparazione della pastiera prendeva diversi giorni.
Bisognava cominciare con l’ammollo del grano, non esistevano le scatolette di grano prelessato in vendita ora nei supermercati, e per reperire l’acqua di fior d’arancio bisognava andare in una farmacia del centro.
Le scuole di pensiero erano diverse; la nonna materna aveva una ricetta che prevedeva la preparazione della crema pasticciera, mentre l’altra nonna ci metteva le uova sbattute, ma quello che è certo è che per la pasta frolla, ora come allora, ci vuole “ ‘a ‘nzogna”.
Tutti gli anni si preparavano parecchie pastiere, che venivano offerte ad amici e parenti, lontani da Napoli come noi, quale graditissimo dono.
Il menù di Pasqua prevedeva la pasta al forno, rigorosamente senza besciamella (colla da manifesti, secondo mio padre) e l’agnello al forno con piselli e patate, solo qualche volta sostituito con l’agnello in fricassea, con i piselli e le uova sbattute; ricetta che si trova quasi uguale anche in Grecia.
Troppo assorbiti da queste preparazioni, solo raramente rimaneva anche il tempo per fare il tortano, o il casatiello, decorato con le uova intere. A giugno era il tempo del nocillo.
Da Napoli ci arrivavano le noci, rigorosamente raccolte la notte di San Giovanni, come vuole la tradizione, e la nonna le tagliava in quarti e le metteva in grandi vasi, insieme all’alcool e alle spezie. Si toglievano dopo 40 giorni, e noi bambine potevamo avere uno spicchio di noce da succhiare, forte di alcool. Il limocino no, non l’abbiamo mai fatto, ho cominciato io qualche anno fa, ma lo faccio solo se riesco ad avere i limoni della costiera amalfitana, o di Procida.
L’estate era il momento delle conserve di pomodoro, e delle melenzane e dei peperoni sottolio, che venivano pronti per Natale.
Natale… Don Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino, scrisse intorno alla metà dell’Ottocento un trattato di cucina teorico-pratica, per la prima volta nella “bella lengua nosta”. Vi si trovano fra l’altro codificati i menù tipici delle feste natalizie, che non sono poi variati tantissimo, nel tempo.
La festa più grande è sempre stata la sera della Vigilia.
Il Cenone comincia con un antipasto “di magro” che comprende sottolii e sottaceti di tutti i tipi, il baccalà in insalata, le acciughe.
Il primo è invariabilemente costituito da vermicelli a vongole. Segue il pesce bollito, il fritto di gamberi e calamari e triglie; irrinunciabile è il capitone, anch’esso fritto.
A seguire immancabilmente l’insalata di rinforzo, fatta di cavolfiore bollito unito a sottaceti, olive e acciughe.
Per frutta il “mellone” e gli agrumi che un tempo ci arrivavano da Napoli e profumavano tutta la casa.
Poi la frutta secca, e quindi i dolci: gli struffoli, palline di pasta fritta e avvolta di miele e decorata con confettini colorati, beneauguranti, e poi paste reali, roccocò, mustacciuoli, sapienze, susamielli, raffiuoli, raffiuoli a cassata, direttamente in arrivo dai parenti napoletani.
Il giorno di Natale c’ è da stupirsi che qualcuno ancora voglia mangiare, eppure ci si siede a tavola e si ricomincia dall’antipasto, che stavolta contempla anche i salumi, e gli avanzi del capitone fritto messi “a scapece”.
Quindi i tagliolini in brodo di cappone, il cappone lesso, le salsicce a punta di coltello con i friarielli, l’insalata di rinforzo, la frutta, le ciociole (frutta secca) e di nuovo i dolci, e stavolta non può mancare la cassata.
Ecco, vi ho raccontato la cucina di casa mia, e scusate se mi sono lasciata prendere la mano dai ricordi.
Volutamente non ho parlato di pizza, di tartalli, di sfogliatelle, perché non sono preparazioni casalinghe, quanto meno non per noi.

E adesso? Adesso vivo sola.
In perenne lotta con la bilancia, la pasta la vedo solo nelle feste comandate, NON incluse le domeniche.
Tradita dalla fretta, cucino solo cose velocissime e molto semplici, e non ho più il tempo di aspettare che il caffè passi attraverso il filtro di una “napoletana”.
Ho rispolverato qualche ricetta solo in occasione delle gnam gnam: per fortuna che ci siete voi!